Dimensioni 2019

L’edizione di Dimensioni che si svolge quest’anno segna il decennale di una manifestazione la cui continuità, grazie alla tenacia dell’associazione ‘Delfare’, costituisce uno dei pochi appuntamenti fissi delle iniziative che hanno come scenario la nostra città. Non è poco, neppure in un momento che vede tanti progetti susseguirsi e spesso, esaurirsi entro termini ristretti, anche solo considerando i tempi di scadenza delle offerte culturali a misura dell’accelerazione imposta dai nuovi media. L’impatto che essi assumono nel complesso delle attività umane determina una serie di mutamenti la cui profondità sfugge alla nostra percezione, sia per la velocità con cui si verificano sia per la pervasività delle nuove tecnologie, soft per definizione. Il display è una sorta di seconda pelle portatile o un ulteriore strato o neo-corteccia cerebrale, il cervello elettronico come eso-mente, intelletto di complemento che altera modi di produrre, di consumare, di comunicare, di pensare, di vivere. Più che mai, diventa problematico stabilire a quale immagine ancorare una realtà che sembra non potersi ridurre a una sola immagine o a un punto di vista unitario: che, pure, se possiamo immaginare sussista, sarà nella disponibilità dei controllori del traffico informatico, ma, certamente, non è il nostro, tanto per sentirci sollevati o spiati. Vale anche per la creatività umana, privilegio di cui la nostra specie è gelosa, anche e anzi, tanto più di fronte ai paradigmi antropologici emergenti, al cui confronto questa pretesa di ‘analogica’ esclusività apparirà patetica – computer do it better.

Dal pollice opponibile al digitale, il passo – procedendo sempre sulle mani – non è stato breve, ma la distanza è enorme e evolutivamente irreversibile: la cesura fra il prima, avanti il computer e il séguito, dopo il computer, è netta: per sfuggirne o scriverlo a soggetto o sotto dettatura, il destino è nelle nostre mani – per la precisione, sulla punta delle dita. Un confine più sottile di quello che pone e anzi, sovrappone il display ai nostri orizzonti più e meno distanti è quello che corre fra arte e artigianato. Un confine mobile, percorso, in modo esplicito o senza pensarci su, lungo una storia che spazia dalle età pre-industriali a quella post-industriale, per rifarne qui forme canoniche e varianti. Non si può fare a meno di pensare, in prima e doverosa istanza, alle tradizionali artigianali della nostra terra: la ceramica, innanzi tutto, con i vasi decorati che risalgono all’età pre-greca e giungono fino a noi, con centri di produzione quali Caltagirone e Santo Stefano di Camastra. Ma anche una dimensione più internazionale ci riporta da noi, alle ceramiche Florio, a Ernesto Basile e a Vittorio Ducrot, se fra i precedenti che piace ricordare pensiamo al movimento Arts & Crafts, Arti e Mestieri, che fece da precursore non al solo Liberty e a quanto ne derivò: reazione alla produzione seriale, sulla scia impressa da Augustus Pugin all’architettura e all’arte inglese, all’impulso sul piano intellettuale dovuto a John Ruskin e a William Morris su quello operativo, segnando una fase storica fondamentale nel passaggio dall’Ottocento al Novecento. La flessibilità del sistema e della società industrializzata non avrebbe tardato a dirottare quel movimento nel ciclo continuo delle mode. Di più, avrebbe trasformato la pratica e l’idea stessa di arte, non solo incorporando l’arte venerata nei secoli nelle strategie di promozione pubblicitaria, ma facendo un’arte a sé della produzione pubblicitaria di immagini, immaginario e mitologie connesse: gli annunci o avvisi commerciali che ricalcano formule sacrali o sacramentali, che, di fatto, sostituiscono, con il loro potere di suggestione e la connotazione più o meno occulta di carattere ‘morale’. Infine, ultimo stsdio di un cammino evolutivo ricco di sorprese, l’arte come uno – uno: ma, certo, cui tributare un culto speciale – degli idola del Mercato e della Borsa-valori. E foriero di ogni simulazione virtuale da batter in breccia o cui fare da battistrada, i musei cedono in franchising intere sezioni con i capolavori che custodiscono per realizzare copie certificate di se stessi negli Emirati o in Cina. Ma il precedente di Arts & Crafts ci permette di ritrovare dalle nostre parti, col nesso di storia locale e dimensione globale, come si dice oggi, il rapporto – naturale, osmotico, conflittuale – fra arte e artigianato se pensiamo a una delle ville che concorrono al prestigio internazionale di Taormina, Casa Cuseni, santuario, del resto, non solo del movimento, ma delle sue metamorfosi e derivazioni.

Ma per tornare sulla terra da cui siamo partiti, stare con le mani sulla tastiera, non d’un pianoforte a coda, ma di un pc, a fare da appendice di una community, come appesi all’orlo del pianeta cui quell’accesso magico fa da rampa di lancio o pista d’atterraggio, è una sensazione strana e si direbbe, al momento, inesplorata. Quel confine, arte/artigianato, è labile quanto il salto evolutivo dal pollice all’indice corrivo della civiltà digitale, fra termini che hanno in comune la radice, in cui l’ordine di precedenza cronologica sembra non corrispondere al primato annesso all’etimologia. Che, dal canto suo, sbarazza il campo da ogni pretesa di una definizione, come se essa non bastasse a se stessa più di quanto osino le parole con cui darne conto: l’arte, pura e cioè, svincolata da logiche eteronome, di committenza e di mercato, di moda o di sempre , si ferma e semmai, riconduce alla radice quello che non può essere disperso affidandolo alla declinazione storica. A quel perno inamovibile si arresta ogni discorso che si azzardi lungo l’asse di quel declino: come una rivendicazione di intangibilità che nessuna smentita può scalfire.

Palazzo Minoriti accoglie un binomio che resiste ai tempi. I tempi sono questi. Belli, per chi ama le partite difficili.

Rocco Giudice.