Dimensioni 2022

Malgrado quanto accaduto dallo scoppio della pandemia, ancora in fieri, allo scoppio della guerra in corso in Ucraina, l’associazione Delfare ha continuato a operare mantenendo fede alla propria tradizione, di continuità e servizio rispetto a una tradizione che dovrebbe essere di tutti (perlomeno, di quanti hanno a cuore la sorte di un comparto produttivo come esito di una civiltà, che, come tale, vede interagire le sue componenti): le attività artigianali, prezioso patrimonio culturale della creatività italiana, fondamento ontologico dei settori più disparati della produzione del nostro Paese, anche apparentemente distante da quel retroterra di secolare esperienza che trova espressione nel brand Made in Italy. Un patrimonio che si sta depauperando e rischia di perdersi del tutto: o di sopravvivere ai margini, come rispettabile quanto patetica reliquia, nel mondo delle stampanti in 3d. Delfare, coerente con la propria ragione sociale, ripropone con fiducia una iniziativa su cui non sembra abbiano inciso i contraccolpi della clausura pandemica, del lockdown e delle restrizioni imposte dall’emergenza covidica. Che avrebbero dovuto, nella interpretazione dei sogni come antidoto alla mancata comprensione della realtà dei fatti, indurre a revisione di stili di vita e di scale di valori, traendo ammonimenti morali dal tacito grillo virale: un salutare (…) stato penitenziale che avrebbe comportato una conversione a maggiore sobrietà, rinunciando al superfluo; valorizzazione delle attività teoretiche, diciamo così (mentre si è registrato l’aumento di violenze domestiche, del consumo di psicofarmaci, l’incremento esponenziale degli accessi ai siti pornografici); meditazione sulla necessità di cui fare virtù, così da persuaderci del fascino irresistibile di una Decrescita Felicissima; la riscoperta di relazioni umane meno effimere (già: da remoto, stando ognuno a casa propria, col display sempre acceso per smart working e conversazioni lunghissime sugli ultimi avvenimenti, ricchi di entusiasmanti colpi di scena, vissuti spostandosi fra tinello e camera da pranzo, di cui non tutte le abitazioni dispongono)… Come se all’umanità fossero mancate occasioni fornite da pestilenze, guerre, carestie, catastrofi naturali (anche climatiche: in epoca pre-industriale, peraltro) per renderla “migliore”, più rispettosa del prossimo, più amante (non sempre corrisposta) della natura, per migliorare il ranking della nostra fra le specie degne del rispetto materno di Gaia. Infine, la guerra in Ucraina e l’indotto che smuove in rincorse agli armamenti è lì a rendere certi della validità di una lezione appresa tanto bene e tanto in fretta: come ci viene ripetuto fino alla nausea, ogni problema offre – che gentile! –  un’opportunità… Dunque, l’occasione generosamente offerta dal virus non andava sprecata.

Anche in un clima così drasticamente mutato, Delfare ha ripreso il cammino che da un decennio circa vede l’Associazione muoversi lungo una strada che ha una sua concreta oggettivazione topografica e dinamica: il percorso sotto il portico del chiostro dei Minoriti, per mostre di artigianato e di arte, nel caso di “Dimensioni”. Che vede partecipare anche quest’anno pittori, scultori, fotografi amici della manifestazione per la presenza in diverse edizioni, cui si aggiungono artisti che vi prendono parte per la prima volta. Ma è difficile allontanarsi da un mondo, ormai, portatile, in formato tascabile ovvero in formato digitale: azzerate le distanze fisiche, il senso delle proporzioni, sul piano di coordinate le cui unità di misura non si lasciano determinare con altrettanta obiettività di riscontri, non ci porta fuori strada ovvero distanti dalle “Dimensioni” di cui discorriamo. Non è neppure una questione nuova, a riproporsi: che può fare l’arte rispetto a una realtà impermeabile, refrattaria all’arte, se non quella mediaticamente promossa e sponsorizzata: ripagarla con la stessa moneta non è detto sia più conveniente: al più, si risolve in un calcolo a somma zero. Ora come mai prima, ci si dice che nulla sarà “come prima”, solo che si dimentichi che era così anche “prima”, quando è cominciato questo “mai più” ridisegnando i confini del futuro secondo linee di forza che tagliano fuori ogni possibile dissenso. L’omologazione photo-shoppistica, la deriva iper-tecnologica delle relazioni umane, la ridefinizione di linguaggi e codici di comunicazione: se l’arte debba mettercene in guardia, farne l’apologia, adattarsi, come una forma di vita di quello che si chiamava spirito, “prima”: difendersi o ignorare bellamente tutto questo. L’arte, che non ha più il monopolio della bellezza, una bellezza eroica, in grado di sopravvivere a ogni sventura, che non patisce l’incuria degli uomini; l’arte non ha più nemmeno l’esclusiva né il primato di quello che ricade sotto il dominio dell’estetica, da molto “prima” di quello che ieri prefigurava il futuro prossimo venturo su tutti gli schermi: non soccorre le nostre speranze e non solleva dalle angosce. Né dà più chance all’ottimismo della volontà neppure la bruttezza, che sembra anch’essa un miraggio: priva di autonomia, di dignità propria, non è che la bellezza come perfezione avariata. Ma la bruttezza ideale, allo stato puro, come stato di grazia, è un sogno impossibile, come una di quelle chimere che agitavano la mente dei poeti. Fuori da queste categorie, l’arte non può vivere che negli appositi spazi – espositivi e di prassi. Fra questi spazi possibili e necessari, “Dimensioni”: anche dilatandoli, da un chiostro a un centro commerciale, dalle piazze reali a quelle virtuali degli stand displaystici, non rinunciamo a credere nell’arte quale valore aggiunto all’esperienza, debitrice e/o tributaria che sia rispetto a questa, il cui azzardo non lasci nulla a ogni computo a somma zero.

                                                                                                                                       Rocco Giudice